venerdì 21 novembre 2008

Osteonecrosi della mandibola

Osteonecrosi dalla mandibola indotta da bisfosfonati

L'uso dei bisfosfonati è stato recentemente associato con l'osteonecrosi della mandibola. L'incidenza maggiore è stata registrata con zoledronato e pamidronato utilizzati per via endovenosa. Con il termine osteonecrosi si intende la morte di una porzione di osso che determina una riduzione della densità ossea. Anche se nella maggior parte dei casi questa complicanza si è verificata con i bisfosfonati per via endovenosa, pure i bisfosfonati orali sono stati implicati. Tra i fattori di rischio emersi dai casi studiati viene segnalata l'estrazione dentaria o traumi a carico della mandibola con esposizione di parti di tessuto osseo.
E' difficile poter determinare l'esatta incidenza dell'osteonecrosi della mandibola nella popolazione generale dei pazienti trattati con bisfosfonati; tuttavia se consideriamo i pazienti neoplastici l'incidenza è circa del 6-7%.
Nei pazienti oncologici viene raccomandata la sospensione della la terapia endovenosa con bisfosfonati prima di eseguire trattamenti odontoiatrici. La sospensione dei bisfosfonati orali non è al momento accettata da tutti dal momento che non è ancora sicuro che tale procedura sia efficace nel ridurre il rischio della osteonecrosi della mandibola.
La terapia di questa condizione patologica non è ancora ben stabilita e quindi tutti gli sforzi devono essere orientati verso la prevenzione che consiste in una buona igiene orale e un monitoraggio periodico dall'odontoiatra. Le evidenze attuali prevedono come trattamento interventi chirurgici di pulizia associati a uso di antibiotici locali e sistemici.

L'osteonecrosi della mandibola è una possibile complicanza della terapia cronica con bisfosfonati. Il riconoscimento di questa problematica ha scatenato un allarmismo generalizzato sia tra i medici che tra i pazienti sul trattamento con questi farmaci.
E' importante fare a tale proposito alcune considerazioni. Il problema è emerso con i bisfosfonati per via endovenosa (in particolare zoledronato e pamidronato) e in pazienti oncologici. Sono state poi pubblicate rare segnalazioni di osteonecrosi della mandibola in corso di terapia con bisfosfonati orali per l'osteoporosi.
Tuttavia non è ancora chiarito se l'incidenza di questo evento nei pazienti osteoporotici trattati con bisfosfonati sia differente da quella della popolazione generale. Il dosaggio di bisfosfonati utilizzato per la prevenzione e il trattamento delle metastasi ossee è da 8 a 10 volte superiore a quello utilizzato nella comune pratica clinica nell'osteoporosi. Il dosaggio del farmaco e la durata del trattamento (l'osteonecrosi è sempre comparsa dopo trattamenti prolungati) potrebbero essere alcuni dei fattori favorenti. I pazienti oncologici presentano inoltre, a causa dei trattamenti chemioterapici e radioterapici concomitanti e dell'immunosoppressione, alterazioni della mucosa buccale e della flora batterica residente. Appare sempre più evidente come l'infezione (è stato pubblicato recentemente uno studio in cui viene sottolineato il ruolo degli actinomiceti) possa giocare un ruolo fondamentale della patogenesi dell'osteonecrosi della mandibola. Emerge inoltre chiaramente come un trauma locale (estrazione dentaria, manovra odontoiatrica, traumi…) sia il fattore scatenante.
Sulla base delle evidenze attualmente disponibili per la prevenzione dell'osteonecrosi della mandibola vengono attualmente raccomandati il mantenimento di una corretta igiene orale e la sospensione del trattamento con bisfosfonati per via endovenosa nei pazienti oncologici in previsione di estrazioni dentarie o manovre odontoiatriche maggiori. Nei pazienti osteoporotici in trattamento con bisfosfonati ai dosaggi terapeutici per questa malattia non viene raccomandata al momento alcuna precauzione particolare.

giovedì 20 novembre 2008

Trapianto di trachea

Tecnica trachea anche per altri organi

"Si comincia finalmente a vedere l'applicazione clinica della medicina rigenerativa. Il trapianto di trachea effettuato con successo in Spagna apre nuovi scenari e fa pensare che l'innovativa tecnica utilizzata possa essere estesa anche a strutture analoghe alla trachea: ad esempio la vescica e l'esofago". Parola del direttore del Centro nazionale trapianti, Alessandro Nanni Costa, che commenta così il primo trapianto di trachea al mondo, senza l'uso di farmaci antirigetto. "La vera novità di questo eccezionale intervento - spiega Nanni Costa all'ADNKRONOS SALUTE - è rappresentata proprio dall'uso di un tessuto ingegnerizzato, che consente di evitare i farmaci immunorepressivi e permette la piena compatibilità dell'organismo ricevente. Almeno in una fase iniziale. L'obiettivo ora - conclude Nanni Costa - è estendere questo tipo di intervento anche per altri trapianti: su tutti la vescica e l'esofago. Organi analoghi alla trachea".

Trapianto di trachea

Trapiantata la prima trachea

Eccezionale trapianto di trachea in Spagna, eseguito da una equipe guidata da un medico italiano. Il primo intervento del genere al mondo, e soprattutto il primo senza l'uso di farmaci antirigetto. L'organo è stato impiantato su una giovane donna di 30 anni, che aveva subito il danneggiamento della trachea a causa di una tubercolosi.
L'intervento è stato realizzato nel giugno scorso da Paolo Macchiarini, responsabile del Servizio di Chirurgia toracica della Clinic de Barcelona, in collaborazione con specialisti del Politecnico di Milano, delle università di Bristol e di Padova. Ne dà notizia la rivista scientifica 'The Lancet'. "La giovane - spiega Macchiarini all'ADNKRONOS SALUTE - aveva sviluppato un collasso della parte terminale della trachea. Purtroppo, il trattamento con le terapie convenzionali (farmaci e stent) non dava i suoi frutti". L'unica soluzione era l'asportazione del polmone sinistro. Ma "a quel punto - racconta l'esperto - abbiamo pensato di proporre alla paziente il trapianto della trachea. Il primo di organo completo e, soprattutto, il primo senza l'uso di farmaci immunosoppressori". Per far sì che il sistema immunitario del ricevente accettasse la trachea senza l'impiego di terapie antirigetto, gli specialisti hanno fatto ricorso a una tecnica di ingegneria tissutale. Il risultato è stato una sorta di organo 'ibrido' tra donatore e paziente.
"La tecnica - riferisce Sara Mantero, del Dipartimento di bioingegneria del Politecnico di Milano, che ha fatto parte del team di Macchiarini - consiste nel prendere un tratto di trachea del donatore cadavere e decellularizzarlo. Contemporaneamente vengono prelevate, e fatte crescere, le cellule staminali ed epiteliali della ragazza. Poi - spiega la Mantero - attraverso un bioreattore rotante, una sorta di camera di plastica che permette di manipolare la trachea del donatore, abbiamo inseminato sulla trachea del cadavere le cellule della paziente, generando così un tratto di trachea totalmente immunocompatibile". L'obiettivo, ora, è utilizzare questa innovativa tecnica anche per il trapianto di altri organi. "Assolutamente sì", conferma Macchiarini. "Il traguardo è quello di utilizzare questa tecnica 'no rigetto' anche per altri tipi di trapianto. Ad esempio per quello della laringe o del colon". Malgrado la soddisfazione per l'intervento perfettamente riuscito, Macchiarini non nasconde un sottile dispiacere. Quello di essere stato costretto a emigrare per mettere in pratica i suoi studi. Il professore, ora cinquantenne, dal 1991 lavora in Spagna. E' uno dei tanti cervelli italiani in fuga. "Purtroppo - commenta con un pizzico di amarezza - in Italia non c'è nessuna possibilità di mettere a frutto le proprie conoscenze scientifiche. Basta guardare tutte le polemiche che si stanno ultimamente sollevando intorno alle università italiane", conclude.

mercoledì 19 novembre 2008

Vit. D e ipertensione

Più ipertensione con meno vitamina D

Bassi livelli plasmatici di 25(OH)D sono indipendentemente associati all'aumento del rischio di sviluppare ipertensione. Benchè studi incrociati abbiano dimostrato che i livelli di 25(OH)D e l'esposizione cutanea a radiazioni UVB siano associati ad una diminuzione della pressione, i dati prospettici in merito sono limitati. In base a quanto rilevato, presumendo un'incidenza dell'ipertensione nelle giovani donne pari a 14,6 casi su 1000 soggetti all'anno, il tasso stimato nelle giovani donne con deficit di vitamina D aumenta a 21,5 casi. Dato che il 65,7 percento delle donne risulta presentare una qualche forma di deficit di vitamina D, il rischio a livello di popolazione attribuibile al deficit di vitamina D è pari a 4,53 nuovi casi di ipertensione su 1000 giovani donne ogni anno. Se questa associazione fosse causale, il deficit di vitamina D sarebbe responsabile del 23,7 percento di tutti i nuovi casi di ipertensione che si sviluppano fra le giovani donne ogni anno. Sono necessari studi randomizzati per determinare se l'integrazione della vitamina D possa ridurre la pressione.
(Hypertension 2008; 52: 828-32)

giovedì 13 novembre 2008

Sclerosi multipla

Sclerosi multipla: nuovi elementi genetici

E' stata identificata nel locus KIF1B la prima variante di rischio neurone-specifica per la sclerosi multipla: tutti i loci genetici associati al rischio di questa malattia scoperti in precedenza erano correlati alla funzionalità immunitaria.
La sclerosi multipla è una malattia complessa che deriva da fattori genetici ed ambientali: l'influenza genetica in questo ambito è fondamentale, come indicato dall'incremento di 20 volte del rischio di base nei fratelli di soggetti affetti dalla malattia. Il KIF1B codifica per un membro della superfamiglia delle chinesine probabilmente responsabile per il trasporto assonale dei mitocondri e dei precursori delle vescicole sinaptiche: esso ha un dominio di ligaggio per l'ATPasi e si trova in gran quantità nei neuroni motori. E' stato recentemente dimostrato che la disregolazione delle ATPasi ed il malposizionamento dei mitocondri hanno un ruolo in diverse malattie neurodegenerative. La mutazione individuata potrebbe spiegare la neurodegenerazione progressiva che si osserva nei pazienti con sclerosi multipla. Sono necessari ulteriori studi funzionali per accertare l'esatto ruolo del gene KIF1B nella patogenesi della malattia.
(Nat Genet online 2008, pubblicato il 9/11)

sabato 8 novembre 2008

Vitamina D

Vitamina D e ipertensione, il dibattito continua

Un effetto protettivo della vitamina D sul rischio di sviluppare ipertensione è stato riportato in alcuni studi, senza però ottenere un’evidenza definitiva. Adesso, due nuove ricerche, una riportante una correlazione inversa fra livelli plasmatici di 25-diidrossivitamina D (25-OH D) e rischio di ipertensione incidente e una seconda che dimostra, al contrario, nessun rapporto fra assunzione suppletiva di vitamina D e livelli di pressione arteriosa, si aggiungono al dibattito.

John Forman e colleghi (Forman JP et Al. Hypertension, 2008, 52:828-32) hanno condotto uno studio caso-controllo prospettico su 1.484 donne giovani (età < 53 anni) indagando il rapporto fra incidenza di ipertensione e livelli plasmatici di 25-OH D. Le donne comprese nel quartile più basso di 25-OH plasmatica presentavano un rischio aggiustato di ipertensione incidente pari a 1,66 (95%CI: 1,11 – 2,48; p = 0,01) rispetto a quelle nel quartile più alto. La presenza di un deficit di vitamina D (< 30 ng/ml) comportava un aumento del rischio di sviluppare ipertensione pari al 47% (odds ratio: 1,47; 95%CI: 1,10 – 1,97).

Nello studio randomizzato in doppio cieco riportato da Karen Margolis e colleghi (Margolis KL et Al. Hypertension, 2008, 52:847-55), tuttavia, la somministrazione di 400 UI/die di vitamina D3 (in aggiunta a 1.000 mg di calcio) non aveva alcun effetto sui livelli di pressione arteriosa. Su una popolazione complessiva di 36.282 donne in post-menopausa, con un follow-up mediano di 7 anni, nessuna differenza significativa è stata trovata fra il gruppo trattato con vitamina D e calcio e il gruppo placebo in termini di modifiche nel tempo dei valori di pressione sistolica (0,22 mmHg; 95%CI: -0,05 – 0,49 mmHg) e diastolica (0,11 mmHg; 95% CI: -0,04 – 0,27).

Nonostante i larghi numeri riportati, neanche quest’ultimo studio potrà essere considerato definitivo circa gli effetti della vitamina D sulla pressione arteriosa. Tuttavia, come commentato dagli stessi autori, «i dati sicuramente suggeriscono che l’assunzione di integratori alimentari non è efficace come sostituto di abitudini alimentari corrette».

venerdì 7 novembre 2008

Cinesiterapia

ESERCIZI ED EQUILIBRIO
Howe, Cochrane Database Systematic Reviews, 2007

Un buon equilibrio richiede apprendimento e pratica. L'allenamento dell'equilibrio dovrebbe far parte di qualsiasi programma di esercizi, in particolare nelle persone anziane che soffrono di patologie destabilizzanti del rachide e nelle persone a rischio di caduta.
Una nuova revisione sistematica della Cochrane Collaboration conferma che gli esercizi possono migliorare l'equilibrio. "Il nostro messaggio è che alcuni tipi di esercizi migliorano le funzioni dell'equilibrio e che non è mai troppo tardi per fare del movimento. In particolare, gli esercizi che mettono alla prova l'equilibrio sono i migliori," afferma Howe.
Per valutare l'efficacia degli esercizi nel miglioramento delle funzioni dell'equilibrio Howe ha identificato 34 studi controllati randomizzati che comprendono un totale di 2883 soggetti. La maggior parte dei soggetti sono donne sane di età superiore ai 75 anni. "Gli interventi che comprendevano cammino, esercizi di equilibrio, esercizi di coordinazione e funzionali, esercizi di rinforzo muscolare ed esercizi di varia tipologia avevano il maggiore impatto sulle misurazioni indirette dell'equilibrio," secondo Howe. Però, non è ancora chiaro se interventi di esercizi a breve termine permettano di ottenere miglioramenti a lungo termine, o se l'esercizio deve diventare un modus vivendi perchè i miglioramenti siano mantenuti nel tempo.

mercoledì 5 novembre 2008

Ictus e riabilitazione

Dopo l'ictus il cervello sa come autoripararsi

Il cervello colpito da ictus è notoriamente in grado di autoripararsi per porre rimedio ai danni conseguenti a questo terribile evento: l'obiettivo è quello di potenziare il recettore responsabile di questa autoriparazione, in modo da migliorare il recupero del paziente colpito da ictus.

Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori italiani coordinato da Maria Pia Abbracchio, del Dipartimento di Scienze Farmacologiche dell' Università di Milano e da Mauro Cimino dell'Università di Urbino. È detto ictus, dal latino colpo, un evento vascolare acuto caratterizzato da un improprio afflusso di sangue ad una regione dell'encefalo ma anche del cervelletto o del midollo spinale, dovuto a occlusione, rottura o spasmo di un vaso cerebrale.
I termini aulici utilizzati per definire questa patologia rispecchiano la storia della medicina, attraverso le lingue che hanno dominato le scienze nel corso dei secoli, poiché si passa dal greco apoplessi, al latino ictus, all'inglese stroke, che significano tutti allo stesso modo "colpo".
Un termine italiano, superiore a questi e più preciso di "infarto", è "accidente cerebrovascolare", che rientra nell'ambito delle sindromi vascolari acute, tra cui annoveriamo anche l'attacco ischemico transitorio (Transient Ischemic Attack o TIA) e l'emorragia cerebrale. L’ictus è una malattia grave. Alcuni, meno fortunati perché hanno lesioni più estese o un decorso aggravato da complicanze, non superano la fase acuta della malattia e muoiono durante le prime settimane. Per altri, una volta superata la fase acuta, si assiste ad un miglioramento. Questo fatto offre motivi di speranza. Vediamo perché succede. Quando si verifica un ictus alcune cellule cerebrali vengono lesionate in modo reversibile, altre muoiono. Le cellule che non muoiono possono riprendere a funzionare. Inoltre nelle fasi acute dell’ictus, intorno alle aree lese il cervello si gonfia per effetto dell’edema. Quando l’edema si riduce il funzionamento delle aree sane del cervello riprende regolarmente. Infine altre aree sane del cervello possono sostituire le funzioni di quelle lesionate. Ovviamente le possibilità di recupero variano in relazione all’estensione della lesione e alla particolarità della zona colpita. Gli effetti dell’ictus variano molto nelle diverse persone: alcune sperimentano solo disturbi lievi, che con il tempo divengono quasi trascurabili, altri, invece, portano gravi segni della malattia per mesi o per anni. Complessivamente delle persone che sopravvivono ad un ictus, il 15% viene ricoverato in reparti di lungodegenza; il 35% presenta una grave invalidità e una marcata limitazione nelle attività della vita quotidiana; il 20% necessita di assistenza per la deambulazione; il 70% non riprende la precedente occupazione. Potrebbero capitare anche piccole forme di perdite di memoria temporanee e chi è affetto da questa malattia potrebbe riprendere l'uso della parola e non capire la sua situazione.
Dopo un ictus è possibile favorire il recupero, almeno parziale, delle funzioni perse. Tale è il compito della riabilitazione. A questo fine è importante stimolare ed incoraggiare i pazienti con ictus alla partecipazione alle attività quotidiane e promuovere l’abbandono precoce del letto (verticalizzazione precoce). Il recupero funzionale dell’arto superiore e la rieducazione del controllo posturale e della deambulazione rappresentano obiettivi a breve e medio termine del progetto riabilitativo. Il trattamento dei disturbi del linguaggio (afasia) richiede preliminarmente una dettagliata valutazione da parte di operatori competenti ed il coinvolgimento di un terapista del linguaggio (logopedista) ed è mirato a recuperare la capacità di comunicazione globale, di comunicazione linguistica, di lettura, di scrittura e di calcolo oltre che a promuovere strategie di compenso atte a superare i disordini di comunicazione ed a addestrare i familiari alle modalità più valide di comunicazione.
Dopo la fase acuta, la cura può proseguire in strutture specializzate per la riabilitazione, tenendo conto delle esigenze a lungo termine del soggetto colpito. Le attività assistenziali a fini riabilitativi dopo un ictus hanno caratteristiche distinte a seconda dell’epoca di intervento e richiedono il contributo di operatori diversi, a seconda degli obiettivi consentiti dalle condizioni cliniche, ambientali e delle risorse assistenziali disponibili.
Il progetto riabilitativo dovrebbe essere il prodotto dell’interazione tra il paziente e la sua famiglia ed un team interprofessionale (infermieri, fisiatri, neurologi, fisioterapisti, terapisti occupazionali, riabilitatori delle funzioni superiori e del linguaggio), coordinato da un esperto nella riabilitazione dell’ictus. Il team si riunisce periodicamente per identificare i problemi attivi, definire gli obiettivi riabilitativi più appropriati, monitorare i progressi e pianificare la dimissione. I dati attualmente disponibili non consentono di documentare una maggiore efficacia di alcune metodiche rieducative rispetto ad altre.
Nel contesto di un progetto riabilitativo comprendente tecniche volte a compensare i deficit si prevede talvolta la possibilità di utilizzare presidi, quali ortesi ed ausili. È utile che i familiari del soggetto colpito da ictus vengano informati, in maniera chiara, sulle conseguenze dell’ictus, soprattutto in termini di deterioramento cognitivo, incontinenza sfinterica e disturbi psichici, oltre che sulle strutture locali e nazionali fruibili per l’assistenza al soggetto malato. Anche i pazienti più anziani possono essere riabilitati: è importante che in questi casi la riabilitazione sia guidata da un processo di valutazione multidimensionale geriatrica. Ogni paziente, ancora disabile a distanza di sei mesi o più da un ictus andrebbe ri-valutato al fine di definire le ulteriori esigenze riabilitative, da realizzare se appropriate.
Oltre ai postumi, quali la paralisi o i disturbi del linguaggio, causati direttamente dall’ictus, i pazienti possono presentare altri disturbi, come spasticità, depressione, demenza vascolare, disturbi d’ansia, malnutrizione, patologie articolari e/o dolorose e cadute. Tali disturbi, nei pazienti con postumi di ictus, non devono essere considerati ineluttabili, ma devono essere adeguatamente valutati e trattati, in quanto altrimenti possono condizionare negativamente il processo riabilitativo.
Circa un terzo dei pazienti colpiti da ictus va incontro a depressione. Questi pazienti lamentano molti segni fisici di depressione (stanchezza, disturbi del sonno, di concentrazione, dell’appetito, etc.). La depressione post-ictus aumenta il rischio di mortalità sia a breve che a lungo termine dopo l’evento ictale, rappresenta un fattore prognostico sfavorevole sullo stato funzionale del paziente sia a breve che a lungo termine, aumenta il rischio di cadute del paziente e ne peggiora la qualità di vita. In questi casi è opportuno iniziare precocemente un trattamento antidepressivo, anche per ridurne l’impatto sfavorevole sull’attività riabilitativa. La malattia cerebrovascolare comporta un aumento del rischio di decadimento cognitivo e la demenza vascolare rappresenta la seconda più frequente forma di decadimento cognitivo cronico. Circa il 20%-25% dei casi di demenza è infatti dovuto alle malattie cerebrovascolari.

Ictus

Ictus, il cervello è in grado di autoripararsi

Ictus: due sono i modi per fare in modo che uccida meno persone: sottoporre in tempi brevi ad una terapia di farmaci adeguati come i trombolitici (che in molti casi può significare il ritorno ad una vita normale) e sfruttare le capacità del cervello di auto-ripararsi, “mettendo al lavoro” le cellule progenitrici immature presenti anche nel cervello adulto e indirizzandole a generare nuove cellule nervose.

Lo dice la Stroke Alliance for Europe (SAFE), organizzazione che riunisce 20 Associazioni di pazienti colpiti da ictus in 17 Paesi europei. Domenico Inzitari, presidente del The Italian Stroke Forum, e direttore della Stroke Unit presso l’Azienda Ospedaliera - Universitaria “Careggi” a Firenze: “L’ictus ha al giorno d'oggi assunto proporzioni pari a quelle di un’epidemia mondiale e in Italia non possiamo che segnalare una scarsa consapevolezza del problema a tutti i livelli, oltre a constatare che, in molti ospedali italiani, il paziente arriva spesso in ritardo e non è curato come dovrebbe”. Uno dei più grandi problemi da risolvere è la differenza in termini di assistenza che ancora esiste in Italia a seconda delle regioni nelle quali ci si cura. Su cosa si punta ora? Sul fatto che dopo una lesione ischemica cerebrale, alcune cellule che stanno intorno alla zona lesa emettono una sorta di segnale di allarme che induce altre cellule ad attivarsi per riparare il danno.